I delitti del marchese Giovanni Battista Carafa

Lun, 13/02/2017 - 13:00
Giovanni Battista Carafa “della Spina”, nato nel 1492, coniuge di Lucrezia Borgia dei principi di Squillace (nipote di papa Alessandro VI), fu un importante personaggio nel viceregno di Napoli della prima metà del XVI secolo, sul quale aleggia, da secoli, un dibattuto “chiaroscuro” storiografico.

L’avv. Filippo Racco è membro della Deputazione di Storia patria per la Calabria, nonché socio di altri sodalizi storico-culturali calabresi. È autore di varie pubblicazioni per la storia dell’età moderna, tra le quali, riguardo alla famiglia Carafa, Una codificazione feudale del Seicento calabrese. Gli “Ordini, Pandette e costituzioni” del principe Carlo Maria Carafa e il buongoverno dello Stato della Roccella. Seconda edizione aggiornata e ampliata (2010, prima ed. 1996) e La Croce e la Mezzaluna. Il principe Fabrizio Carafa, Sinàn Bassà Cicala e l’assedio di Castelvetere. 9 settembre 1594 (2014).
In occasione del convegno tenutosi, il 15 gennaio scorso, per il 485° anniversario dell’autonomia municipale del casale di Sideroni (odierno Comune di Siderno) per privilegio imperiale concesso all’allora feudatario Giovanni Battista Carafa, marchese di Castelvetere e conte della Grotteria, Filippo Racco ha trattato la figura di quel signore feudale, ancora controversa in sede storiografica, con una relazione che ha suscitato l’interesse dell’uditorio anche per la peculiare biografia di quel personaggio, il quale morì in Napoli, giustiziato, dopo un lungo processo giudiziario.
Avv. Racco, chi fu Giovanni Battista Carafa e quale fu la sua politica feudale?
Giovanni Battista Carafa “della Spina”, nato nel 1492, coniuge di Lucrezia Borgia dei principi di Squillace (nipote di papa Alessandro VI), fu un importante personaggio nel viceregno di Napoli della prima metà del XVI secolo, sul quale aleggia, da secoli, un dibattuto “chiaroscuro” storiografico. Successo al padre negli estesi feudi di famiglia (Grotteria con i casali di Martone, San Giovanni, Agnana, Mammola e Sideroni; nonché Motta Gioiosa, La Roccella e Castelvetere), G.B. Carafa sostenne la politica imperialistica di Carlo V con l’iperbolica spesa di 59.100 ducati. Per i servigi così resi alla corona, l’imperatore, nel 1530, lo nominò marchese di Castelvetere (odierna Caulonia) e, in seguito, lo insignì dei prestigiosi titoli di cavaliere di S. Giacomo e di Grande di Spagna di prima classe. Nei feudi dominati, il marchese promosse l’istituzione di locali fiere e mercati ed istituì, nel 1529, l’annuale mercato, nel castello di Motta Gioiosa, della durata di otto giorni (1/8 agosto). Nel settore militare, G.B. Carafa curò inoltre l’apparato difensivo delle proprie terre feudali per fronteggiare le continue incursioni turchesche e, a tal fine, munì di mura urbiche (di cui oggi sono ancora visibili pochi resti) il casale di Sideroni, per il quale ottenne l’autonomia municipale con privilegio imperiale del 16 gennaio 1532. In riconoscenza di tutto ciò, in onore di quel feudatario, i sidernesi gli eressero una statua trionfale che lo raffigurava, purtroppo dispersa prima del 1674, come ciò discende da una coeva lapide, rinvenuta in Siderno superiore non molti anni or sono, nella quale risulta la memoria di quel monumento.
Quale fu il rapporto tra G.B. Carafa e i vassalli feudali?
Dal 1528 fino al 1534, il marchese avviò una decisa azione per la reintegrazione dei beni feudali un tempo concessi a molti vassalli dal padre, il conte Vincenzo Carafa. Tale operazione, promossa, anche e soprattutto, al fine di recuperare le ingentissime spese sostenute per l’imperatore, fu inoltre diretta a reprimere una sorta di anarchia fiscale perseguita da molti vassalli e ancor più aggravata, per le finanze carafiane, dall’usurpazione delle proprietà feudali. Sovente, autore di tali illeciti, spacciati per antiche concessioni del genitore del marchese, non fu soltanto il popolo, ma anche l’aristocrazia locale e la classe sociale dei cosiddetti “honorati” (proprietari terrieri ed esercenti professioni liberali), i quali li perpetrarono, in particolare, nel marchesato di Castelvetere, laddove i vassalli furono, da sempre, i più ostili al dominio della casa feudale carafiana. Dopo la reintegrazione di molti appezzamenti fondiari, la superficie di territorio feudale castelveterino aumentò nella misura del 4,4%, mentre quella della contea della Grotteria si attestò intorno all’8,5%. A seguito di quelle reintegrazioni, tuttavia, derivarono profonde incrinature nei rapporti tra il feudatario e molti suoi vassalli, specialmente castelveterini, alcuni dei quali, per una presumibile conflittuale ritorsione per gli spossessamenti fondiari subiti, nel 1548 denunciarono il marchese, per presunti suoi gravissimi crimini, al vicerè del tempo Pedro de Toledo.
A seguito di quella denuncia, G.B. Carafa fu processato?
Dopo che il feudatario fu imprigionato nelle carceri di Castel Capuano in Napoli, sede del Tribunale della Vicaria, giunse in Castelvetere il commissario Rodorico Alferes, insieme a un cancelliere, per svolgere le opportune indagini investigative. Costoro però, come pure denunciato dai vassalli castelveterini, furono corrotti dalla marchesa Lucrezia Borgia, la quale, avendo spesi ben 30.000 ducati, riuscì anche ad intimidire e a subornare molti testimoni addotti a carico del marito, essendo stata coadiuvata, in tale sua illecita opera, da una violenta masnada di pregiudicati comandati da Pietro Carafa, figlio naturale del feudatario incriminato. Appreso ciò da una successiva denuncia, parimenti presentata da alcuni cittadini, il vicerè de Toledo revocò l’incarico ad Alferes e inviò quindi, in Castelvetere, altro commissario per svolgere ulteriori indagini, dopo le quali a G.B. Carafa furono contestati molti delitti nel processo “criminale” promosso a suo carico. Tali fatti, così come il seguente iter processuale, sono documentati in incartamenti conservati nell’Archivio di Stato di Napoli e, in Spagna, nell’Archivo General de Simancas. Il 26 febbraio 1552, nelle tetre prigioni napoletane, il marchese fu sottoposto a interrogatorio con la tortura della “corda”, vero e proprio strumento di sevizie fisiche e psicologiche, per effetto della quale, come è ben immaginabile, il torturato confessava anche reati che non aveva realmente commessi. E, di ciò, ne è riprova la dichiarazione difensiva resa da G.B. Carafa, testualmente verbalizzata all’inizio della sua tortura, “Io me protesto che se dico alcuna cosa lo dico per dolore de li tormenti”.
Il marchese confessò i crimini per i quali fu denunciato dagli abitanti di Castelvetere?
Durante l’interrogatorio, tra i dolorosi tormenti della “corda”, dei quarantuno delitti contestatigli il marchese confessò di essere stato mandante di cinque omicidi (avendone però negati altri due di cui era stato accusato) e, in relazione a sei casi di lesioni personali gravi, dichiarò esserne stato l’esecutore materiale per alcuni e per altri, invece, soltanto il mandante. Dalla confessione di G.B. Carafa (verbalizzata, si rammenti, sotto tortura) emerge il ritratto di un feudatario collerico, cinico, dispotico e violento: ma anche, paradossalmente, quello di un impenitente tombeur des femmes, come ciò, infatti, discende allorquando si protestò del tutto innocente per ventotto capi di accusa per violenza carnale, avendovi eccepito il consenso scriminante delle donne castelveterine, sue presunte vittime, da lui tutte amate in corrispondenza di amorosi sensi (tra cui, come in una novella boccaccesca, anche tale suor Giulia, monaca di clausura nel locale monastero di S. Maria di Valverde) e con due delle quali procreò pure due figli naturali, Pompeo e il già citato Pietro.
Quale fu l’esito del processo “criminale” cui fu tratto il marchese?
Quella causa penale durò quattro anni. A sfavore del marchese, oltre alle risultanze della sua deposizione confessoria, pesarono le conseguenze dei violenti tumulti popolari avvenuti in Napoli, un anno prima del suo arresto, contro l’introduzione del Tribunale della Santa Inquisizione. Quella rivolta, sostenuta (non già con finalità anti-imperiale ma, sottesamente, antivicereale) dalla nobiltà partenopea, che mal tollerava il “prorex” Pedro de Toledo e la sua politica, fu capeggiata da importanti nobili del tempo, tra i quali Cesare Carafa dei duchi di Maddaloni (cognato di G.B. Carafa per averne sposata la sorella Giulia), il quale, processato e torturato per quei moti, riferì il diretto coinvolgimento di Pietro Carafa, figlio naturale del feudatario di Castelvetere. Il vicerè de Toledo usò la dura repressione, che seguì ai quei tumulti, come severo monito alla inquieta aristocrazia del viceregno e il processo “criminale” contro G.B. Carafa, uno dei più importanti feudatari del tempo, gli offrì anche tale opportunità. Tanto è che nessun esito sortì una supplica del 12 agosto 1552, per la concessione di grazia al marchese di Castelvetere, sottoscritta da potenti feudatari del tempo, parenti dell’imputato, quali Luigi Carafa, principe di Stigliano (che partecipò alla rivolta antitoledana), il di lui fratello Federico Carafa, marchese di San Lucido (sostenitore, invece, del vicerè), nonché Fabrizio Carafa, conte di Ruvo, Diomede Carafa, conte di Maddaloni, Giovanni Francesco Carafa, conte di Montecalvo e Giovanni Battista Carafa, conte di Policastro. La condanna alla pena capitale, a quel punto, apparve già segnata ed infatti pochi mesi dopo, il 17 dicembre 1552, G.B. Carafa fu giustiziato, in Napoli, mediante decapitazione. Si compì così, su quel patibolo, il fatale e tragico destino di uno dei più importanti e potenti feudatari del viceregno napoletano.
Dopo l’esecuzione capitale, che ne è stato della memoria di G.B. Carafa?
Nella seconda metà del Seicento, la “dannata” memoria del marchese di Castelvetere fu riabilitata grazie al patrocinio dell’Utriusque Juris Doctor Giovanni Francesco Pasqualino, noto avvocato e giurista di origine roccellese, all’uopo incaricato dal principe Carlo Maria Carafa, successore di quel feudatario. Ma l’oblio del tempo e degli uomini sembra ancora infierire sul ricordo (ancorché controverso) di Giovanni Battista Carafa, il cui nome, almeno nella locale toponomastica, Siderno potrebbe - e dovrebbe - oggi ricordare per una migliore conoscenza della propria identità storica e civica: essendo stato infatti quel feudatario, si rammenti, colui il quale, 485 anni or sono, ottenne l’autonomia municipale di Sideroni e il quale inoltre, con la da lui voluta costruzione delle mura urbiche difensive, provvide così a tutelare intere generazioni di sidernesi, da allora e per i secoli successivi, contro il pericolo delle incursioni turchesche. 

Autore: 
Vladimir
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