Il mito di Apollo e Dafne e il femminicidio

Lun, 04/07/2016 - 20:00

     Si parla molto di femminicidio in questo periodo. Anzi, è un argomento drammaticamente ricorrente, nella misura in cui le notizie di cronaca mettono il dito nella piaga di un fenomeno che sembra avere la ripetitività inflessibile dei fatti di natura, come la fredda statistica dimostra. 
     Ovviamente si parla anche di cause, e qui ognuno dice la sua, cogliendo un aspetto del problema a seconda della sensibilità, degli strumenti di analisi e dei dati di cui riesce a disporre. 
     Ma la ripetitività cui ho fatto cenno pare collocare il femminicidio in una dimensione ancestrale, atavica, in una remota preistoria in cui l’inclinazione alla “violenza ” si è iscritta nella natura umana come una ferita originaria, una stortura che è parte integrante dell’eredità presente. 
     A questo fatto inaudito del “male originario”, alle vicende oscure del travaglio filogenetico della nostra specie allude il mito, che è racconto che affonda le sue radici nel più remoto passato della cultura orale, racconto anonimo che condensa nelle suggestive sequenze della narrazione fantastica una sapienza profonda, un’intuizione a volte lucida a volte oscura della tragicità della condizione umana. 
     Il mito di Caino e Abele, del fratello che uccide l’altro fratello per invidia; il mito di Apollo e Dafne, dell’uomo che uccide la donna per amore. E il mito è un fatto originario, un fatto archetipico, la cui tipicità “obbliga”, modella i comportamenti con una forza tristemente cogente. 
     Dice il mito - ripreso da Ovidio nelle sue Metamorfosi -, che un giorno Apollo faceva il gradasso con Cupido, il piccolo fanciullo alato che scaglie le frecce d’amore, vantandosi per le sue imprese e il suo valore: “… so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici, … con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone, infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia.” 
     Ma ebbe subito di che pentirsi per tanta boria,  perché colpendolo con una freccia aurea Cupido lo fece innamorare inguaribilmente di Dafne, figlia di Peneo, che invece si votò alla castità: “ … e dalla faretra estrasse due frecce d'opposto potere: l'una scaccia, l'altra suscita amore. La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, la prima è spuntata e il suo stelo ha l'anima di piombo. Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l'altra colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo. Subito lui s'innamora, mentre lei nemmeno il nome d'amore vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata …” 
     Apollo, che fino ad allora si era riflesso – narcisisticamente – nello specchio ideale delle sue virtù e del suo valore, si sente improvvisamente mancante, monco di qualcosa di essenziale. Nello specchio non vede più il suo volto, ma quello di Dafne, e ne  contempla la bellezza: “  Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, e pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano come stelle; guarda le labbra e mai si stanca di guardarle; decanta le dita, le mani, le braccia e la loro pelle in gran parte nuda; e ciò che è nascosto, l'immagina migliore.” La contempla, e poi la insegue : “E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, spirandole contro gonfiava intorno la sua veste e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore lo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo.” 
     Apollo è sopraffatto dal fantasma dell’appropriazione di ciò che sembrandogli eccellente, lo vuole reintegrare a sé come se gli appartenesse ab origine. Dafne è diventata idealmente una parte di lui, quella componente ideale, quella estensione di cui non può più fare a meno, la cui mancanza avverte come una lacerazione insopportabile. 
     Egli brucia, come bruciano “in un soffio le stoppie”, ma vani sono i tentativi di persuadere la fanciulla a fermarsi: “Ma lei fugge più rapida d'un alito di vento e non s'arresta al suo richiamo … Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi come uno zotico. Non sai, impudente, non sai chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi, di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara. Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra. Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso. La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe. Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore, e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!” 
     Lo psicoanalista Jacques Lacan avrebbe detto che qui Apollo esibisce “il fallo”,  cioè si gioca le sue carte facendo la parata, mostrando quello che ha: potere, ricchezza, talenti. All’opposto, la donna, sempre secondo Lacan, che non ha il fallo, può tuttavia mostrarsi all’uomo come colei che “è” il fallo, cioè come dotata di tutto ciò che può soddisfare il suo desiderio. Non “ha il fallo”, ma “è il fallo”, in quanto nella sua povertà è la sua ricchezza, e può far sentire l’uomo terribilmente mancante. 
     Ma la parata non funziona, perché non esiste una ricetta infallibile per conquistare il cuore di una donna, e Apollo deve ammettere il suo fallimento, il quale tragicamente converte il desiderio in frustrazione, e la frustrazione  in aggressività. Si sente come un “cane di Gallia” quando “scorge in campo aperto una lepre”, e “ scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi …” 
     Il fantasma di appropriazione lo travolge, la volontà di Dafne non conta più nulla per lui, e non le dà tregua finché, avendola raggiunta, non le ansima sul collo tra i capelli al vento. 
     Dafne non ha scampo, ma per sfuggire alla violenza prega il padre di trasformala  in qualche altra cosa, di dissolverla, e diventa una pianta. A questo punto Apollo si rassegna, ma non prima di avere distrutto l’oggetto del suo amore: “E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.” 
     La metamorfosi di Dafne in alloro è quindi il femminicidio originario, perpetrato da Apollo ai danni di Dafne, adombrato dal mito con grazia poetica e plastica, ma chiaramente evidente. 
     Ad intossicare l’animo di Apollo non è la contemplazione della bellezza di Dafne, ma il desiderio di appropriazione, fantasma tipicamente maschile, profondamente distruttivo, che converte l’amore in odio. L’oggetto amato che si rivela estraneo, ostile, non integrabile, che sancisce l’esclusione da ciò che prometteva di arricchirlo e potenziarlo, viene investito di un odio feroce. L’odio verso la vita. 
Diceva Simone Weil riguardo alla bellezza: “ Le beau est un attrait charnel qui tient à distance et implique une renonciation. Y compris la renonciation la plus intime, celle de l’imagination . On veut manger tous les autres objets de désir. Le beau est ce qu’on désire sans vouloir le manger.” 
La bellezza è un'attrazione che tiene a distanza e implica la rinuncia. La bellezza è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Esiste cioè una sacralità della bellezza, di cui si può gioire senza il desiderio distruttivo dell’appropriazione, un po' come quando contempliamo la luce del Sole o l’azzurro del mare, e ne gioiamo senza possederli, ma sentendocene posseduti! 
Non è la soluzione  al problema del femminicidio, ma indica la via verso il perfezionamento di sé – morale ed estetico -come una possibile risposta.

Autore: 
Gaetano Riggio
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