La lacuna della mostra “Ulisse calabrese” inaugurata a Siderno Superiore

Dom, 01/09/2019 - 13:00

Nel ricco calendario della mostra che a Siderno vuole ricordare Lawrence Ferlinghetti (dall’8 al 31 agosto) nessun rilievo ha la maestosa figura di Fernanda Pivano che ebbe il merito di fare conoscere in Italia la grande narrativa e la inquietante poesia di autori nord americani del secondo dopoguerra. Quasi normale che le curatrici della mostra Giada Diano e Elisa Polimeni ambiscano a ritagliarsi uno spazio autonomo nella vicenda culturale che propongono. Purtroppo per loro, niente meglio della letteratura ha necessità di guardare alle spalle gli esploratori che le fondamenta della conoscenza culturale hanno costruito. Fernanda Pivano, vissuta nel contesto della cultura fascista, ebbe il merito, aiutata dal suo professore di italiano Cesare Pavese, di trasferire in Italia un mondo di creatività al quale l’intera Europa non era a conoscenza. E in questo anno nel quale ricorre il decimo anniversario (18 agosto 2009) della morte di Nanda (come amavano chiamarla gli amici) sarebbe parso giusto che anche a Siderno questa donna straordinaria fosse ricordata. Quasi un gesto di riconoscenza verso un personaggio nei confronti del quale abbiamo infiniti debiti. Ma le curatrici della mostra forse non hanno accettato con nobiltà il fatto che la riconoscenza non deve mai essere un peso. E quindi grati alla direttrice Maria Giovanna Cogliandro cerchiamo di dare spazio e arricchire la lacuna che la mostra “Ulisse calabrese” ostenta.
“Ero tanto assetata di amore!/ero tanto affamata di vita”. Tratti dall’Antologia di Spoon River, questi due versi sono la fotografia esistenziale di Fernanda Pivano, che il libro tradusse per le sollecitazioni del suo professore Cesare Pavese. Nata il 18 luglio di cento anni fa a Genova, Fernanda Pivano ha svolto una grandiosa opera di svecchiamento e di sfoltimento del troppo provincialismo che abitava e che abita la cultura italiana. Invaghita del fascino culturale di Pavese, che le terre americane aveva esplorato con passione eroica, Nanda, accusata spesso di protagonismo, seppe rendere fertile il terreno di un viaggio nel nuovo mondo durato molti decenni.
Una lunga vita quella della Pivano intrisa di laboriosità e di incontri straordinari, miscelata a cupezze e meschinità subite, che ne turbavano il sorriso contagioso. Nell’inverno del 1948 incontrò nella sala dell’Hotel Concordia di Cortina Ernest Hemingway. Confessò emozione e felicità e anche pelle d’oca. Nanda doveva tradurre “Addio alle Armi”. L’incontro fu impacciato. Nanda bellissima aveva fatto inebriare, solo virtualmente Pavese, e, si racconta, con maggiore concretezza, il professor Nicola Abbagnano. Hemingway le offrì un bicchiere di cognac, lei si schernì: “Sono astemia”. E lo scrittore: “Questo non me lo dovevi fare daughter (figliola)”. Ogni volume di Hemingway era da lei tradotto. Approfittò delle sue visite negli Usa per ritagliarsi il merito professionale di avere diffuso le opere di Jack Keruac, Gregory Corso, Allen Ginsberg, Ferlinghetti, Neal Cassidy: il mondo della omosessualità, delle droghe, del dissenso, del pacifismo, di un internazionalismo poetico vitale e grandioso di cui occorre conservare limpida la memoria. Sposata con l’architetto Ettore Sottsass, suo coetaneo, geniale ma pigro, povero, geloso della fama della moglie, Nanda era costretta a scrivere di notte per assecondarlo di giorno. Innamorato di una giovanetta sudamericana Sottsass la abbandonò. Nella sua casa di Trastevere con le piante di basilico nei vasi a ricordarle l’amata Genova, piangeva lacrime disperate: “Ho preso tante bastonate nella vita e molta stima dagli amici. Ma quando torno a casa alla sera la luce è sempre spenta”.
Si dichiarava perbenista borghese e pentita di non essere mai andata a letto né con Pavese né con Hemingway. “Mi sono però innamorata di Fabrizio De Andrè, avevo preso una cotta terribile”. Lo sbandamento sentimentale la portò a dire che Fabrizio era il più grande poeta italiano del ‘900.
Risposta tutta genovese dell’autore di “Bocca di Rosa”: “Non diciamo cazzate”.
Di Bob Dylan in Italia scrisse per la prima volta proprio Nanda che lo aveva conosciuto a San Francisco nel 1965. L’autore di “Blowing in the wind” incontrò trenta anni dopo a Roma l’amica; in silenzio si abbracciarono tra le lacrime. “Dylan sentiva che l’America era alla deriva – scrisse – ma seppe suggerire cosa fare per evitare ciò”.
Accettò di cantare con la Premiata Forneria Marconi una canzone che miscelava cinque lingue diverse, “una profezia sulla società multietnica del futuro quando si parlerà solo con lingue contaminate”. Chiese uno del gruppo: “Andiamo a Sanremo?”, e la Nanda eterna monella: “Ma siete proprio dei figli di p…, passiamo qualche giorno insieme e poi decidiamo”. Su una copia del libro “Beat, hippie, yippie” editrice Arcana (1972), dedicata a un amico, ebbe a scrivere: “sapessi con quanta gioia, quanta felicità ho scritto questo libro, amalo un po’ anche tu”. E a corollario disegnò un ascetico fiorellino con pochi petali. Politicamente si definiva una “pasionaria”. Ma don Andrea Gallo al funerale esaltò la sua scelta di campo in favore della libertà e della pace, di un mondo non più atomico, ma globale. “Non ci sono matrimoni in cielo/ma c’è l’amore”. Ancora Spoon River. Per uno strano caso del destino era stata al liceo compagna di classe di Primo Levi: entrambi rimandati in italiano alla maturità. Nel 2010 al festival del Cinema a Venezia, Patti Smith cantò in suo onore in un concerto intitolato Pivano Blues. Si definiva anarchica, contro tutte le guerre, sia quelle giuste sia quelle sante. Sodale di Fabrizio, dolce menestrello cantore del pacifismo, della nonviolenza, dell’anticonformismo. È sepolta nella sua Genova, città di Montale e Sbarbaro, Colombo e Paganini. La sua tomba non è lontana da quella di Mazzini, affascinante suonatore di chitarra che attribuiva alla musica potere rivoluzionario. Grazie Nanda, un applauso anche da Siderno.

Autore: 
Matteo Lopresti
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