"Mi hanno accusato ingiustamente e il cuore di mia madre non ha retto"

Dom, 28/05/2017 - 11:37
Nel gennaio del 2009 Francesco Richichi senza capirne il motivo, finisce tra i 109 arrestati dell’Operazione Giotto, un’operazione gigantesca che fa saltare una “holding di falsari” operante in Italia con diramazioni all’estero. Insieme alla madre inizia una lunga battaglia per dimostrare la sua innocenza. Lo scorso gennaio Francesco è stato assolto ma la madre non c’era a festeggiare con lui.

“Ho capito perché nelle foto che vengono pubblicate sui giornali tutti sembrano delinquenti: vengono scattate nel cuore della notte!”. Sono le 3 del mattino del 28 gennaio del 2009 quando i carabinieri piombano a casa di Francesco Richichi e lo prelevano, senza dire una parola.
“Una situazione kafkiana. Arrivato in caserma, mi rilevano le impronte digitali dopodiché, alle 5 del mattino, mi consegnano un librone e mi dicono che mi avrebbero accompagnato a casa. Io ho risposto che abitavo lì vicino e che sarei potuto andare a piedi. A quel punto vengo informato che sono in stato di arresto”.
Associazione a delinquere, spaccio di valori bollati falsi e spaccio di banconote false: questa l’accusa. Francesco Rechichi si ritrova senza capirne il motivo tra i 109 arrestati dell’Operazione Giotto, un’operazione gigantesca che fa saltare una “holding di falsari” operante in Italia con diramazioni anche in Germania, Spagna e Lituania.
Il motivo? Secondo l’accusa Francesco avrebbe versato 1.080 euro a un tizio per acquistare marche da bollo false da rivendere nel suo tabacchino. “Con quei soldi ho comprato ricariche telefoniche da 5 euro! Presso il mio tabacchino non erano acquistabili valori bollati, bastava venire a controllare. E poi 1-0-8-0 – scandisce Francesco – pagati con assegno! Un pagamento tracciabile, ché se lo dico in giro che sono stato arrestato per questo non mi crede nessuno. Eppure il p.m. che ha condotto le indagini ha fatto carriera! Nessuno si è degnato di farmi una domanda: Signor Richichi, lei ha spacciato banconote false? In che veste ha avuto contatti con questa persona? Glielo avrei spiegato, per l’amor di Dio!”.
A “incastrare” Francesco è stata una telefonata. “Linguaggio criptico! Parlare in maniera informale con una persona, senza stare attento a come componi la frase è linguaggio criptico. Tu magari non usi il soggetto e ce lo appiccicano loro!”.
Il giudice dell’udienza preliminare condanna Francesco Richichi a 1 anno e 4 mesi di reclusione. “Ho vissuto quel giorno come il primo giorno di scuola, un mondo nuovo da cui mi sono sentito risucchiato. Annaspavo nell’assurdo”. Francesco si ritrova tutt’a un tratto catapultato nella farraginosa macchina della giustizia: a una velocità prodigiosa la logica aveva subito una battuta d’arresto mentre la sua mente veniva sopraffatta dall’andare e venire di qualcosa che non riusciva a essere pensiero. “Il GIP senza fornire una vera e propria motivazione ma limitandosi a fare un copia e incolla dell’istanza del Pubblico Ministero mi aveva condannato. Nessuna discussione, nessuna presa di coscienza seria circa il contenuto e le ragioni di quanto veniva deliberato. A valutare sembra ci sia stato un tribunale dell’Inquisizione! La macchina della giustizia ha degli ingranaggi privi di senso tanto che sei portato a tifare per la malavita, perché pensi che più malavita della giustizia non c’è” – dichiara sconfortato Francesco Richichi.
“Io mi vergognavo a uscire di casa – prosegue – ma non per me, per mia madre. Lei ne ha sofferto tantissimo… suo figlio un delinquente? È stata un fulmine a ciel sereno anche per lei. Ha lottato con me per trovare un ponte, un contatto con un briciolo di sensatezza. Ma purtroppo, alla fine, il cuore di mia madre non ha retto: oggi sono cinque anni che non è più con me. Hanno ammazzato mia madre! La malagiustizia me l’ha portata via!”.
Dopo 8 anni Francesco Richichi è stato assolto. Deve, però, rispondere del reato di evasione. “Quando ero agli arresti domiciliari ho chiesto un’ora di permesso perché mia madre si era aggravata. Quel giorno a Reggio era in corso la metanizzazione e per questo motivo ho portato un piccolo ritardo. Avrei dovuto telefonare mi hanno detto, ma essendo ignorante in materia di delinquenza – sorride amareggiato Francesco – non lo sapevo e sono caduto nell’inghippo”. Oltre al danno la beffa: la vita di Francesco Richichi continuava a incorniciarsi nell’assurdo. “Mai avrei potuto immaginare che un giorno potessi rischiare il carcere. Mi veniva da ridere solo a pensarci. Tuttavia, non mi sono mai proclamato innocente, mi sembra stupido: lo fanno tutti i colpevoli. Pertanto io mi dichiaro colpevole di cazzonaggine! Purtroppo non sono dotato di furbizia, questa è stata la mia disgrazia più grande”.
“Le procure – continua Francesco – non riescono a capire che questi giochetti costano, che si rovinano le vite delle persone. C’è il malaffare a Reggio Calabria, certo che c’è, però la procura spesso nell’affanno di fare giustizia, butta anche brava gente nel suo tritacarne. Non c’è più un distinguo. Viene inquisito un uomo e tutti quelli che portano il suo stesso cognome vengono inquisiti insieme a lui. Così ragionava la mafia: ti ammazzava se ti aveva visto parlare con chi non avresti dovuto. Erano quelli gli anni delle guerre di mafia… adesso che anni stiamo vivendo? Siamo di fronte a due Moloch: da un lato la mafia, dall’altra la magistratura. Hanno lo stesso piglio e sono guidati dalla stessa ingiustizia. Anzi forse la mafia potrebbe sembrare più umana: ti fa fuori subito, la magistratura ti lascia in agonia”.

Autore: 
Maria Giovanna Cogliandro
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