Enzo Tortora: morto di un tumore chiamato malagiustizia

Dom, 19/08/2018 - 12:40

Quando Enzo Tortora morì la mattina del 18 maggio 1988, Marco Pannella volle comunicarlo alla Camera dei Deputati con queste parole: “Tortora non va considerato come una vittima, perché ha saputo non essere consenziente allo strazio di legalità e di diritto, perché non è stato tonto, non ha accettato il ruolo tragico di vittima, non ha consentito che la giustizia fosse vittima. Tortora era un uomo di cultura e non di potere, né nelle istituzioni, né nella professione. Era, dicono, un “presentatore”, ma nessuno come lui ha rappresentato e non presentato o commentato la passione per la giustizia, l'amore per coloro che la condividevano o per coloro che ne soffrivano la mancanza o la violenza. Enzo Tortora ci lascia sperare…”
Una speranza che si chiama cambiamento, riforma della giustizia, perché non ci siano altri casi Tortora, perché non ci siano innocenti resi colpevoli, nemmeno nel nome di una sacrosanta battaglia contro la malavita organizzata, perché – come scrive Enzo dal carcere - “un uomo sia rispettato, sentito prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazione di pazzi criminali”.
Ad accusare Enzo erano diciassette pentiti, diciassette bugie che per il tribunale di Napoli sono diventate una verità, in nome della lotta alla criminalità organizzata. Una lotta sacrosanta, da portare avanti a ogni costo ma non quando il costo viene pagato dall’ignaro cittadino che suo malgrado si trova imbrigliato nel tritacarne della malagiustizia. Diceva Sciascia che “la mafia non si batte con la bestialità ma con lo stato di diritto”. Questi i paradigmi di Tortora che, a dispetto di chi lo voleva colpevole, camorrista e spacciatore di droga, si fece leader di una nobile battaglia per la giustizia giusta culminata con la schiacciante vittoria (tradita poi da una legge inadeguata quanto inapplicata) del referendum sulla responsabilità dei magistrati.
Quando poi capì che il tempo era finito, che il suo “Big Ben aveva detto stop”, e che quella bomba al cobalto, che gli era scoppiata dentro proprio con l'arresto quel 17 giugno del 1983, aveva preso il sopravvento, costituì una Fondazione che porta il suo nome, con la quale ha affidato a me (ma da condividere con tutti) questa sua battaglia. Una eredità pesante, difficoltosa, ardua, onerosa. Un impegno che porto avanti con convinzione e amore, facendomi per questo - fra l'altro - parlamentare radicale ed editore di un libro che raccoglie le lettere inviatemi dal carcere. Un libro, come direbbe Sciascia, “a futura memoria”, che ho presentato in tutta Italia, dalle Alpi alle… Piramidi.
A Gioiosa Jonica, in questo pezzetto della mia amata Calabria, grazie a Nicodemo Vitetta, e con il prezioso contributo di Federica Roccisano, ho fatto parlare Enzo Tortora con la sua storia, le sue parole, il suo esempio. Ed è stata una bella serata condivisa con un pubblico interessante e interessato.
Mi è stato chiesto cosa direbbe Tortora a questi miei concittadini assillati da tanti problemi, materiali, culturali e sociali. Non lo so. Ma sono certa che tutta la vicenda di Enzo, il suo esempio, il suo rifiuto al ruolo di vittima, la sua battaglia contro la malagiustizia che fa danni quanto la malavita, il suo impegno in politica che – come dice Giuliano Ferrara - “gli consente di essere un italiano utile a tutti gli italiani”, la sua dignità, siano tutti il giusto monito anche per questa terra.
Leonardo Sciascia, che di Enzo era amico e “complice” di cultura giuridica e non solo, scrisse di lui: “Ho seguito e incoraggiato la sua battaglia. Una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e dignità. L'ho rivisto dopo molti mesi. Parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un'illusione”.
Ad oggi lo è. E che la vicenda di Enzo Tortora non abbia insegnato nulla, che si sia sprecata inutilmente una vita, che non si sia fatto tesoro di un’esperienza che avrebbe dovuto fare dell’Italia un vero stato di diritto, provoca una nota di amarezza e di delusione. Amarezza e delusione, non certo resa. E, forse, questo è il messaggio che mi sento di affidare ai miei conterranei: mai arrendersi – Enzo non lo ha fatto -, mai subire le prepotenze passivamente – Enzo si è battuto come un leone fino alla fine -, mai chinare la testa sotto il peso della rassegnazione – Enzo è morto di un tumore provocato dalla malagiustizia, ma ha lottato fino alla fine con una denuncia forte e inconfutabile. Facciamo nostra la sua battaglia: sarà il modo giusto per onorare Tortora e assicurare un futuro migliore ai nostri figli.

Francesca Scopelliti
(Presidente Fondazione per la giustizia Enzo Tortora)

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