Sicuramente l’evidenziazione del patrimonio di meli riscontrati da Domenico Andrieri di San Giovanni in Fiore in tutto l’altopiano della Sila è stata sorprendente, in quanto aveva dimostrato che c’era un numero incredibile di varietà di tale pianta da frutto, non presenti in altre aree d’Italia e probabilmente d’Europa.
Infatti, in circa trent’anni di esplorazione, era stato capace di individuare ben settecento tipi di meli che aveva studiato e seguito dalla fioritura alla maturazione dei frutti e aveva chiesto alle autorità regionali di aiutarlo per poter creare dei campi di salvataggio.
L’avevo conosciuto poco meno di dieci anni fa quando, con Sergio Guidi, dirigente dell’Arpa Emilia Romagna, andammo a trovarlo in un ospedale a Catanzaro nell’area di Germaneto, dove era in cura per una malattia che non gli consentiva più di girare e conoscere varietà ancora non scoperte.
Ci raccontò in quell’occasione il metodo che utilizzava e quanto importante era stato l’aiuto di sua moglie che l’assecondava, in quanto credeva anche lei all’opera di salvataggio che cercava di portare avanti il marito.
Ci mostrò in quel frangente un enorme quaderno in cui lui e la moglie avevano annotato le caratteristiche di ogni melo studiato e continuò raccontando le delusioni a cui era andato incontro, nel tentativo di creare un campo vetrina nei pressi di un consorzio agrario gestito dai figli, che periodicamente però subiva dei furti di piante già messe a dimora nel terreno da qualche anno, perché gli autori pensavano che fossero uniche o, quantomeno, rare.
Alla fine fu costretto a buttare la spugna quando i figli verificarono che in una determinata notte erano stati estratti dalla terra una decina di meli che corrispondevano a dieci varietà precise.
E allora irrorarono di diserbante tutte le piante e, da allora in poi, l’attività di ricerca di Domenico cessò e nessuno più si occupò del patrimonio più grande in tale settore che l’altipiano della Sila custodiva dal tempo dei romani.
Il resto del territorio calabrese non possedeva un’analoga ricchezza, anche perché già dal tempo del Regno delle due Sicilie il territorio silano esportava le sue mele e, quindi esisteva uno sbocco commerciale per cui era possibile ricavare un certo reddito.
Naturalmente, in ogni altra comunità della Calabria, le mele erano largamente diffuse sia per l’alimentazione umana sia per quella animale, e venivano scelte le varietà adatte a ogni territorio.
Di conseguenza le aree premontane o delle alte colline erano più vocate e adatte per potere accogliere i meli, però, anche nelle aree di mare, venivano selezionate delle varietà che si adattavano a esse.
Da anni aspetto l’occasione di poter reperire la varietà totemica appartenente alla famiglia Maviglia di Africo, che impediva alle altre famiglie di poter utilizzare la loro varietà (tale notizia l’ho avuta dai miei amici Pietro Maviglia il Grecia e da Bonaventura Maviglia, Camagna).
Tale notizia, interessante dal punto di vista antropologico, indicava l’egemonia totale dei Maviglia ad Africo da centinaia di anni, da quando, profughi dalla Spagna dalla fine del ‘400, si erano rifugiati in Calabria, in seguito alla decisione di Isabella di Castiglia, regina di Spagna, di cacciare tutti gli ebrei dal regno.
Allora l’Italia meridionale, governata decentemente dagli Aragonesi, accolse gli ebrei, che poi furono cacciati anche da tali territori verso il 1519, quando gli spagnoli occuparono l’Italia meridionale.
I Maviglia di Africo, secondo le notizie avute dal mio defunto amico Cillo Maviglia, erano ebrei dell’Andalusia e avevano poi abiurato la propria fede e si erano stabiliti ad Africo, casale di Bova, da cui discendevano gli abitanti di Africo, appunto, minoici in prevalenza, secondo la lettura scientifica del loro DNA.
Infatti, da alcuni anni, l’università di Bologna sta studiando i profili dei calabresi e, in particolar modo, quelli della Calabria greca, e risulta che gli africoti (e non gli africesi, che è meno nobile, in quanto non contiene il suffisso tes greco) dal punto di vista genetico sono identici agli abitanti di Bova.
Le notizie riguardanti il profilo genetico degli africoti, collegati ai bovesi, l’ho avuta dall’antropologa Rosalba Petrilli di Girifalco, che ha curato la raccolta degli elementi utili per processare il DNA dei soggetti studiati per conto dell’Università di Bologna; i dati scientifici sono stati resi pubblici due anni addietro pubblicamente a Bova, da professori dell’Università di Bologna, durante un convegno organizzato da Carmelo Nucera.
Ritornando alle piante di melo, quella oggetto d’indagine è stata reperita anni fa presso il campo coltivato con tanto amore dal defunto Francesco Mezzatesta, in contrada Lacco del Muro del comune di Bianco.
Ero andato a prelevare le marze del Melo d’Inverno di Bianco e di quello della vendemmia di Gerace e, evidentemente, sbagliai nello scegliere il melo, in quanto, dopo tre anni dall’innesto, mi ritrovai di fronte a una sorpresa graditissima, in quanto sulla pianta innestata vidi tre belle mele non corrispondenti alle due varietà sopra citate, che producono frutti rosseggianti.
Il frutto che è evidenziato dalla foto è verde intenso, di notevole pezzatura, dal diametro di circa 8 centimetri e schiacciato ai poli.
Un’altra caratteristica positiva che lo riguarda si riferisce al fatto che è apparso integro, ossia non attaccato dalla mosca della frutta, quindi evidentemente oppone a essa delle resistenze.
Quando poi mi decisi di aprirlo per osservare le caratteristiche dal punto di vista del gusto, osservai che esso è delicatissimo e dalla grana fine.
Seppi dal figlio del defunto Francesco, Giovanni, e dal fratello Bruno, che l’innesto era stato reperito a Portigliola, dove era il melo prevalente tra altri ed era stato riprodotto nel campo di Bianco; a Portigliola la varietà è denominata Virdella.
Melo Virdella di Portigliola
Autore:
Orlando Sculli
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